Chiamiamola anche Smart City, ma con giudizio

Per (nostra) comodità evidenziamo in giallo le frasi (per noi) salienti. Il Comitato

 

Data di pubblicazione: 06.12.2012

da : http://mall.lampnet.org/article/articleview/14409/1/198

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I modi di dire sono ambigui. Smart City non sfugge al rischio, ma la cosa importante in questo caso come in altri è badare al metodo di giudizio: non basta qualche gingillo tecnologico, a fare una città intelligente

Come tutte le semplificazioni di moda, anche la cosiddetta (l’aggettivo cosiddetto qui è rigidamente d’obbligo) Smart City si presta a numerosissime interpretazioni, tutte più o meno adattabili all’ampio contenitore del nome, ma che spesso e volentieri tendono a sbilanciarsi in una sola direzione marcatamente tecnologica, al punto da coincidere addirittura con una sola applicazione tecnologica attorno alla quale poi gira tutto il resto, se c’è un resto da far girare. Certo nessuno nega che introdurre innovazioni non sia di per sé un modo smart di affrontare problemi, né che le tecnologie possano fare e facciano sempre un gran bene alle città: anzi la città nasce storicamente proprio come concentrato di tecnologie, a distinguersi dalla campagna dove esse o sono più arretrate, o vengono comunque applicate in modo più diluito sul territorio.

Per restare a un caso di per sé abbastanza virtuoso a noi vicino, quello dell’Expo milanese del 2015, basta dare un’occhiata al filmato di presentazione della Smart City Expo per cogliere al volo questa centralità della piattaforma tecnologica, in sostanza tutto ciò che attraverso la rete e i terminali personali consente un rapporto complesso e interattivo con la città, specie col quartiere espositivo. Sintetizzando al massimo, vediamo una bella ragazza che arriva a Milano, sfrutta al meglio i servizi offerti dalle tecnologie interattive di comunicazione per organizzarsi logisticamente, raggiungere il quartiere dell’evento, e poi fruire di tutte le possibilità offerte dall’evento stesso. Il che naturalmente coinvolge anche aspetti esterni alla pura rete informativa high-tech, che appunto fa da interfaccia smart tra il city user e la città fisica, ma questa città fisica compare solo ed esclusivamente sullo sfondo, o sullo schermo del terminale personale. Insomma è infinitamente più grande e complesso quanto sta fuori, da questo genere di smart city, di quanto non ci stia dentro.

Vero è che da qualche parte bisogna pur cominciare, e che piuttosto che niente è meglio piuttosto, come dice l’adagio popolare. Ma, qui scatta dal domanda, da dove si può cominciare, o da dove è meglio cominciare? Non esiste una risposta univoca naturalmente, perché anche da un’idea integrata molto piccola come quella della gestione intelligente della sosta delle auto possono svilupparsi in fretta tentacoli in grado di coinvolgere la città nel suo insieme, con effetti collaterali impensabili e profondi. Appare chiaro però il bisogno generalizzato di un approccio il più ampio possibile già in partenza, e soprattutto NON limitato (negli investimenti e nelle speranze) alle piattaforme high-tech e relativa organizzazione. Si possono e si devono coinvolgere, anche mettendoli al centro o in cima, aspetti marcatamente sociali, ambientali, economici, politici. Con quelli tecnologici a fare da moltiplicatore degli effetti: come dire, è assai poco smart avere a disposizione un potente computer che sta nel taschino, se lo si usa per fare stupidaggini e giochetti autoreferenziali.

Il criterio di intervento dipende naturalmente dai contesti, dalle risorse disponibili, dalla discrezionalità delle scelte di chi promuove, finanzia, gestisce qualunque cosa si voglia marchiare smart city. Ma esistono misuratori generalizzati, elaborati ad hoc per costruire appunto dei ratings unitari di queste esperienze diverse, e in cui (a differenza di altre valutazioni urbane) si cerca di andare oltre la sommatoria aritmetica dei punteggi di settore, per considerare la città com’è realmente, ovvero uno spazio fisico e sociale integrato, dove le eccellenze possono anche ridursi a ben poca cosa quando nono organicamente inserite e collegate a tutto il resto. Tanto per restare all’esperienza della elegante signora in visita all’Expo milanese dall’estero, nella sua smart city mancano completamente dei ratti a cui pestare la coda, poi inciampare e cadere a terra sfasciando il tablet su cui si stava ammirando qualche padiglione. Niente di sorprendente, ovvio, ma può sorprendere invece che non si sappia nulla del perché quei ratti sono esclusi dalla sceneggiatura. Perché la smart city è solo settoriale e non si immischia con le faccende della gestione ambientale, lasciate per conto proprio? Oppure perché tutta la trafila della rete integrata riguarda solo gli aspetti privati, magari con un risvolto fortemente sociale, e però solo privati?

Non lo sappiamo, e non possiamo saperlo se non ci dotiamo di un criterio di valutazione, come quello proposto da Boyd Cohen che per Fast Company ha provato a fare una graduatoria di alcune città americane classificandone i progressi verso la smart city, e gioco forza chiedersi chi fosse più avanti, e perché. Ne emerge un quadro decisamente diverso da quanto la maggior parte degli osservatori casuali si immagina d’istinto: un quadro entro cui entrano insieme le classiche reti high-tech, magari accoppiate a programmi sulla sostenibilità energetica e ambientale, oppure agli investimenti in ricerca e sviluppo. Ma c’è di più: sono gli aspetti materiali (ovvero quanto diremmo normalmente che con la smart city non c’entra nulla) a fare la parte del leone. Una società giusta e inclusiva è molto smart, un eccellente livello medio di salute e abitabilità dei quartieri pure, trasporti che funzionano bene, costano poco e sono quindi accessibili a tutti, non inquinano, valgono più di tutti gli schermi ammiccanti del mondo. I quali gingilli simbolo della nostra epoca post-meccanica iniziano ad assumere un ruolo importante quando diventano parte integrante del resto: non conta lo schermo ma la qualità reale di ciò che virtualmente mostra e ci avvicina come utenti.

Del resto, se sulla parola smart si possono anche organizzare migliaia di convegni da venditori professionisti che interpretano e ritagliano il termine su misura alle proprie esigenze, sulla parola city c’è molto meno spazio di manovra, perché tutti almeno in sede locale la sanno declinare benissimo dal punto di vista materiale. E un ambiente poco smart, o una società ingiusta e diseguale, o un’amministrazione lontana dalla vita quotidiana dei cittadini, saltano all’occhio, e non basta allontanarli dallo sfondo dei filmati pubblicitari, o dalle informazioni degli sponsor tecnologici. Ma la cosa più importante è l’idea di città come un tutto unico interdipendente: la si può intuire nell’immagine sinottica proposta dalla Ruota della Smart City allegata all’articolo di Boyd Cohen sul sito di Fast Company. E poi magari provare a valutare in modo sistematico con quel criterio di massima il filmato della Smart City Expo. Ne esce diciamo così così: si può fare molto meglio.

Chiamiamola anche Smart City, ma con giudizioultima modifica: 2013-04-09T08:47:00+02:00da paoloteruzzi
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